Quando nei primi del 900 Il Metodo Stanislavskij pose le prime pietre di quella che sarebbe diventata la recitazione contemporanea nel teatro e nel cinema, lo stesso Maestro probabilmente non potè capire la grandiosità della sua ricerca. Di certo fu consapevole di essere, se non il primo, almeno uno dei primi a porsi il problema di una codificazione della recitazione che non lasciasse gli attori in balia del loro puro talento o della “serata speciale”. Partendo proprio dall’osservazione dei grandi attori del suo teatro Stanislavski si accorse che in alcune sere l’interpretazione di alcuni di essi risultava sublime e in altre assolutamente falsa e inefficace. Come era possibile? Nessuno di loro era in grado di capire come quella magia si verificasse in maniera quasi casuale. La mancanza di strumenti tecnici, di analisi di ogni singola emozione o espressione corporea portarono lo “scienziato della recitazione” a raccogliere intorno a sè un gruppo di attori e attrici con cui, attraverso una vera e propria sperimentazione, arrivò nel 1928 alla pubblicazione di quel ”vangelo” che ogni attore o persona che si avvicina al mondo del teatro e del cinema non può non conoscere, ovvero “Il lavoro dell’attore su se stesso” . In esso sono contenuti i pilastri della “Psicotecnica”, quella tecnica che consente agli interpreti di esternare attraverso un percorso psicologico e di analisi delle “circostanze date” del testo, un flusso emotivo intenso che da credibilità ai personaggi portati sul palcoscenico.
Fatta questa lunga premessa, che potrebbe essere ancora più lunga visto che il “Metodo” come una serie di scatole cinesi porterebbe a parlare di Grotowski, dellActor Studio, di Lee Strasberg, di Sanford Meisner e di altri importantissimi percorsi che ha messo in moto nel corso del 900 fino ad oggi. Ma sarebbe appunto un discorso molto lungo.
Il Maestro alla fine della sua vita si convinse che il suo metodo non fosse in grado di risolvere il problema (almeno non del tutto). Eppure quel mettere a fuoco tutta l’attenzione sul corpo dell’attore e sulla sua mente fu la chiave di svolta. Non si trattava più di fare le “voci”, di “usare le intonazioni”, gestire lo spazio con pose affettate e ammiccanti, ora si trattava di trasformare i personaggi in persone! Certo è che se il lavoro sul “sottotesto” si rivelò uno degli strumenti ormai indispensabili per la costruzione del personaggio la “reviviscenza” trova maggiori difficoltà nella sua applicazione. Gli attori americani seppero reinventare quelle indicazioni e tutt’oggi dalle scuole di recitazione americane escono attori se non dotati di grande talento di capacità espressive indiscutibili. In un industria del cinema e del teatro come quella americana ma anche quella anglosassone il “Metodo” resta fondamentale.
Ma se è vero che il “Metodo” è un percorso con indicazioni precise e identiche per tutti è altresì vero che ogni singolo attore dovrà, attraverso la conoscenza di esso, costruirsi l suo personale “Metodo” che gli consenta di essere un attore autentico, sempre vero, mai ingabbiato dai clichè e dalla ripetizione stanca e vuota del personaggio a lui destinato.
Su queste premesse i miei metodi di insegnamento si fondano. Il metodo stanislavskij è per me una scelta inevitabile come attore, come regista e come docente di recitazione.
Vittorio Attene