TRAGICAMENTE COMICHE: Una divertente galleria di figure femminili tragicamente comiche

ASSOCIAZIONE ARTISTICA TEATRO DELLE ORTICHE
24 MAGGIO 2014
TRAGICAMENTE COMICHE
Una divertente galleria di figure femminili tragicamente comiche
Regia di Vittorio Attene
In occasione dell’evento primaverile VIVI IL PORTELLO il 24 maggio uno spettacolo per inaugurare la nuova piazza Portello.
Leggendo i monologhi di Pietro De Silva l’unica cosa possibile da fare è ridere. La sua scrittura cala i personaggi in situazioni così assurde, tragiche al limite dell’assurdo che ne provi pena e ne ridi di gusto. E generalmente si propende per la seconda possibilità. Per la prima volta nel Veneto vengono portati alcuni tra i suoi più esilaranti monologhi dalla ASSOCIAZIONE ARTISTICA TEATRO DELLE ORTICHE con la regia di Vittorio Attene. “Tragicamente comiche” è uno spettacolo che non è Cabaret, è teatro. Teatro allo stato puro, come quello degli d’oro del teatro comico italiano, della Rivista. Una comicità di parola e di grandi interpreti.
Durata: 60 minuti circa
Ingresso libero
Con: CATERINA RICCOMINI, MONICA SICHEL, DANIELA ZANGARA, GIULIA CANTONE, SABINA TREVISAN

Estratto da: L’OROLOGIO CONTEMPORANEO di Arthur Miller

Lee – Di catastrofi veramente nazionali l’America ne ha avute due sole. Non la Prima né la Secon¬da Guerra Mondiale, e nemmeno il Vietnam né la Guerra d’Indipendenza del 1774. Solo la Guerra Civile e la Grande Crisi degli anni ’30 hanno colpi¬to quasi tutti gli americani dovunque vivessero e a qualunque classe sociale appartenessero. (Lieve pau¬sa). Personalmente credo che dentro di noi abbiamo ancora paura, che improvvisamente, senza preavvi¬so, tutto vada a catafascio un’altra volta. E che que¬sta paura, in maniere delle quali non ci accorgiamo, sia ancora alla base di tutti i nostri…

Robertson – Mi dispiace ma non sono d’accordo: non credo che una catastrofe simile possa verificarsi an¬cora. E non alludo solo a quella della Borsa. Parlo di quella emotiva. Intorno al 1929 si credeva general¬mente che ogni americano dovesse inevitabilmente diventare ogni anno più ricco. La gente oggi la sa molto più lunga, lo sa che ci saranno alti e bassi, è molto più scettica…
Robertson – (esita) Penso che lei dovrebbe cercare di tirarsi fuori dalla Borsa.

Dottor Rosman – Fuori dalla Borsa?

Robertson – Vendere tutto. (Fa una pausa. Alza la te¬sta per pensare, parla meditatamente).

Dottor Rosman – Mi può dire su che base fonda que¬st’idea? Quando è stata la prima volta che le si è presentata?

Robertson – Circa quattro mesi fa. Verso la metà di maggio.

Dottor Rosman – Può ricordare l’occasione che gliel’ha suggerita?

Robertson – Una delle mie ditte produce utensili da cucina.

Dottor Rosman – Quella che lei ha in Indiana?

Robertson – Si. A metà maggio tutte le nostre ordi¬nazioni sono cessate.

Dottor Rosman – Completamente?

Robertson – Zero totale. Ora siamo a fine agosto e non sono riprese.

Dottor Rosman – Com’è possibile? Il titolo in Borsa continua a salire.

Robertson – Trenta punti in neanche due mesi… Cerco di dirglielo da un sacco di tempo, dottore… il mercato non rappresenta altro che uno stato d’ani¬mo. (Alzandosi a sedere) D’altra parte devo ammet¬tere l’ipotesi che questa non sia altro che una mia fantasia personale…

Dottor Rosman – Si. Lei ha sempre avuto una fobia di catastrofi incombenti.

Robertson – Ma non ho avuto altro che riunioni alla Banca Morgan per tutta la settimana, ed è lo stesso in quasi tutte le industrie… i magazzini sono pieni zeppi, non riusciamo a fare uscire la merce: il fatto è certo.

Dottor Rosman – Ne ha parlato con i suoi colleghi, di questo?

Robertson – Non mi danno retta. Forse perché non se lo possono permettere… Tutto il sistema è basato su un attivismo folle. Abbiamo trasformato il Paese in una bisca e ce lo stiamo giocando in una partita dove non dovrebbe esserci mai nessuno che perde! Comunque domani, appena si apre la Borsa, finisco di vendere tutto. Questo mi dà un senso di colpa, ma non vedo altra via d’uscita.

Dottor Rosman – Perché vendere la fa sentire in colpa?

Robertson – Scaricare dodici milioni in titoli potreb¬be provocare una valanga. Potrebbe mettere sul la¬strico migliaia di vedove e di vecchi…

SCENA 2

Lee – Mamma, indovina!

Rose – Cosa?

Lee – Ti ricordi che ho vuotato il mio conto in banca per la bicicletta?

Rose – E con questo?

Lee – La banca è stata appena chiusa dal governo! E fallita! C’è una folla che urla: dove sono i nostri sol¬di! C’è un sacco di polizia. Non c’è più denaro nella banca!

Rose – Sei un genio!

Lee – Pensa! avrei potuto perdere i miei dodici dolla¬ri!… Ti rendi conto?

Rose – Fantastico. (Si toglie dal collo una collana di perle, e sta li seduta, fissandola).

Lee – Non ti piace Brooklyn, mamma? Perché non piantiamo un albero da frutta in cortile? Ti immagi¬ni, uno esce e coglie, non so, una mela, o qualcosa. (Ora vede le perle. Commosso) Oh, mamma. Dav¬vero?

Rose – Mi piange proprio il cuore a doverlo fare: era il regalo di nozze di papà…

Lee – Ma il lavoro di papà? Lui non potrebbe…

Rose – Ha investito tutto quello che aveva in Borsa, tesoro. Gli fruttava più li che nella sua fabbrica. E ora non c’è più niente. (Un ladro compare rapido, in¬forca la bicicletta e se ne va). Ma tutto si aggiusterà. Sii prudente. Va’! Ti preparo un panino con la mar¬mellata per quando torni. (Lee infila le perle nella ta¬sca dei pantaloni avvicinandosi a dov’era la bicicletta; guarda in tutte le direzioni, si sente gelare le ossa. Lee corre su e giù e a destra e a sinistra, poi si ferma, senza fiato, con un’espressione d’orrore sul viso. Come se sentisse che qualcosa non va Rose lascia la sua poltro¬na e va verso di lui) Dov’è la tua bicicletta? (Lui non riesce a parlare). Ti hanno rubato la bicicletta? (Lui è immobile). Che gli vada di traverso tutto quello che mangia la prossima volta! (Lo abbraccia) Oh, te¬soro,, tesoro! che cosa orribile! (Lui singhiozza una volta, ma poi si trattiene. Lei lo tiene per le spalle, standogli di fronte, e cerca di sorridere). E adesso do¬vrai andarci a piedi, al banco dei pegni, come tutti gli altri. (Lo fa ridere). Vieni, mangia il tuo panino con la marmellata.

Lee – No, voglio vedere se posso andarci di corsa, al¬meno mi alleno per la gara d’atletica. A proposito, ho quasi deciso per l’università. Vado a Cornell, o a Brown.

Rose – (una vuota esclamazione di congratulazione) Ah!… però hai ancora un po’ di mesi per decidere. (Si mette una mano sugli occhi, addolorata).

SCENA 3

Lee Cara mamma, caro papà. Non è un vero e proprio impiego perché non mi pagano, ma mi lasciano mangiare in cambusa e dormire sul ponte. Il Missis¬sippi è cosi bello, ma a volte fa paura. Ieri ci siamo fermati in un villaggio dove distribuivano fagioli e carne agli affamati. La carne era piena di vermi. Quando il macellaio affondava il coltello dentro ve¬devi tutto un formicolio. Improvvisamente un uo¬mo ha tirato fuori un fucile e l’ha puntato contro il macellaio obbligandolo a distribuire la carne buona per la quale era stato pagato dal governo e che lui s’era tenuta per rivenderla ai clienti paganti. Cerco, senza riuscirci, d’immaginare come Mark Twain l’avrebbe descritta una scena del genere. Non capi¬sco come la gente riesca a campare: moltissime ban¬che hanno le porte sbarrate con travi. E non piove da mesi: anche il cielo s’è asciugato. Ogni città è piena di uomini seduti sui marciapiedi con la schie¬na appoggiata alle vetrine vuote. Ti guardano o dor¬mono. Sembra un sortilegio. Cerco di trovare le fal¬le del marxismo ma non ci riesco. Ho appena letto in un articolo che dodici dirigenti nell’industria del tabacco guadagnavano più di trentamila coltivatori di tabacco messi insieme. Ecco perché è successo tutto questo: i lavoratori non hanno mai guadagna¬to abbastanza da potersi ricomprare quello che pro¬ducevano. Il boom degli anni ’20 è stato una truffa colossale. I ricchi non hanno fatto altro che rapina¬re la gente. E il presidente Hoover sa solo dire: ab¬biate fiducia! Sono passato lungo campi di grantur¬co lasciato li a marcire sui gambi senza essere ven¬duto, con gli sceriffi a fare la guardia mentre la gen¬te casca per la fame. Ci sarà una rivoluzione, mam¬ma… (Esce).

Joe – (rivolto al pubblico) Caro Lee: formidabile il Mississippi, da quanto mi racconti! Quasi come qui. Ti sto scrivendo da un bordello. Vengo qui per ritrovare il mio equilibrio mentale. Per quello che è. Ho deciso di darmi ancora un anno. Dopo di che sarò troppo nervoso per poter prendere in mano il trapano. Ho paura d’esserlo troppo già ora. Spero di sbagliarmi, ma vedo che più la gente sta nei guai meno contesta il sistema. Sui marciapiedi della me¬tropolitana la gente parla continuamente da sola: sono talmente scombussolati che perdono anche i treni. E la follia. E incredibile quanti americani mi vengono dietro per cercare di tastarmi il sedere. Ie¬ri, per un nonnulla, un gobbetto si mette a gridarmi in faccia « Tu non troverai una sola parola sulla de¬mocrazia nella costituzione! Questa è una repubbli¬ca cristiana! » Il bello è che nessuno ha riso. La sva¬stica nazista imperversa su tutti i manifesti del den¬tifricio. Io tengo il naso dentro il mio cesto di fiori ma la metropolitana puzza di fascismo. All’angolo della Quarantanovesima Avenue con l’Ottava puoi comprare due buone salsicce per sette cents. Che vuoi che ci tiri fuori quello, a due salsicce per sette cents? Qui qualche bella mattina mi aspetto di ve¬dere improvvisamente milioni di persone riversarsi per strada uscendo dai palazzi e… non so come an¬drà a finire, si ammazzeranno fra loro? O ammazze¬ranno soltanto gli ebrei? O si siederanno tutti in mezzo alla strada a piangere? (Viene spinto avanti un letto ed entra Isabel. Joe si sta infilando un secondo paio di pantaloni sul primo).

SCENA 4

Lee – Dopo tutti questi anni non ho ancora deciso co¬sa pensare nei riguardi di mia madre. Alla sua ma¬niera, un po’ pazza, somigliava molto all’America. Qualunque cosa credesse credeva anche il contra¬rio. Si sedeva nella metropolitana accanto a un ne¬gro e in due o tre minuti riusciva a farsi raccontare da lui vita, morte e miracoli. Poi, magari il giorno dopo… (Tono allarmato) «Hai sentito! Dice che i negri stanno invadendo il quartiere! » O si lamenta¬va del suo destino di donna «Sono nata vent’anni in anticipo» diceva «Trattavano una donna come una vacca, le ficcavano in pancia un bambino e la tenevano chiusa in casa a chiave per il resto della vi¬ta! » Ma subito dopo avvertiva «Attento alle don¬ne!… quando non sono stupide sono ingannatrici! » Arrivavo a casa e le facevo fare un bel tuffo nell’ideologia rivoluzionaria, e lei era subito pronta a sa¬lire sulle barricate: non era ancora sera ch’era di nuovo innamorata del Principe di Galles. Somiglia¬va tanto all’America: era ossessionata dal denaro, ma quello cui veramente aspirava era qualche posto in alto da dove poter guardare intorno e inalare un’aria di vita libera. Anche se era stata sconfitta tante volte, credette fino alla fine che il mondo era stato creato per diventare sempre migliore… Non so: quello che so di sicuro, ogni volta che penso a lei, è che finisco sempre col sentirmi traboccare di vita.

Rose – (alpiano) Canta!

Lui sorride, si volta rapido verso di lei: Rose è lon¬tana, sempre più lontana, le mani gli fanno cenno da sopra la tastiera. Mentre una viva luce balena sul continente coperto di nuvole nello sfondo… Lui va verso di lei e le luci calano mentre appare Robert¬son, settantenne, col suo bastone.

Robertson – Gli intervistatori fanno sempre le stesse due domande: «potrebbe succedere ancora?» è la prima. Io non posso riuscire a credere che permet¬teremo a tutta la nostra economia di disintegrarsi un’altra volta… ma si sa anche che la stupidità uma¬na è senza limiti… La seconda domanda è se fu ve¬ramente Roosevelt a salvare l’America. (Pausa). In realtà Roosevelt era un conservatore, un uomo tra-dizionale che fu trascinato a sinistra da un’emer¬genza dietro l’altra. Ci furono momenti in cui la pa¬rola rivoluzione in America non fu considerata re¬torica. Ma, ch’egli lo volesse o no, il risultato certo di tutti i suoi contorsionismi, del suo sperimentare, del suo dire la verità e del suo continuo e insoppor¬tabile tergiversare… fu che la gente fini col credere che il paese le appartenesse sul serio. Non è affatto detto che questa fosse l’intenzione del signor Roosevelt, non so neanche bene come possa essere acca¬duto ma, secondo me, è stata questa fede che ha sal¬vato gli Stati Uniti. Buio.